Da lungo tempo esiste, nella storia della cultura occidentale, una stretta connessione fra architettura e utopia.
È consuetudine considerare il dialogo platonico che tratta, tra l’altro, della città ideale (la Repubblica ) come la prima utopia di questo filone culturale. Il termine utopia è arrivato in realtà fu introdotto da Thomas More, che presentò la sua società ideale come realizzata su una lontana "isola di Utopia", nel 1516.
L’utopia è dunque prima di tutto il progetto di una società ideale.
Ma quale? E soprattutto come?
Durante il Medioevo e il Rinascimento si è cercato a tutti i costi di rispondere a queste domande in svariati modi. Nel Medioevo la risposta faceva di solito ricorso alla religione: una cattedrale perfetta come l'immagine del paradiso in Terra o un monastero come comunità cristiana ideale. Più tardi, durante il Rinascimento, era più probabile che assumesse l'immagine di una città ideale progettata secondo le proporzioni classiche dell'antica architettura greca o romana con edifici, strade e piazze di eleganze insuperabile.
Chi immaginava questi ideali e li metteva su carta non era di norma un architetto, in quanto questo tipo di professione, come noi oggi la intendiamo, si formò gradualmente durante i secoli XV e XVI.
Fu probabilmente un monaco a redigere il progetto del monastero ideale di San Gallo, in Svizzera, nel secolo IX. Fu un pittore a realizzare il miglior progetto di città ideale per il ducato di Urbino negli anni attorno al 1480.
Pochi anni più tardi Leonardo da Vinci, autore di un celebre progetto di città ideale per il ducato di Milano, padroneggiava ogni abilità, dalla pittura a olio all'ingegneria. Le tracce lasciate dai creatori di questi progetti fantastici ricordano tempi e ideali lontani e rimangono impresse nelle menti di chiunque le abbia viste.
I secoli XVII e XVIII sono scossi da notevoli cambiamenti intellettuali, sono i secoli in cui scienziati come Galileo Galiei e Isaac Newton trasformano il modo in cui guardare il cosmo, mentre gli li architetti espandono e ricostruiscono le grandi città del mondo, da San Pietroburgo a Washington. In quel periodo la gran parte delle nuove aree di sviluppo urbano venivano realizzate in stile classico, prediletto dagli architetti per qualsiasi progetto, sia per le piccole abitazioni sia per le maestose cattedrali.
Ma gli architetti del periodo illuminista spinsero le ricerche stilistiche in nuove direnzioni, a volte troppo audaci per essere realizzabili. Per esempio, i progetti di Inigo Jones per il palazzo reale di Whitehall a Londra erano esageratamente esosi persino per la prodiga monarchia Stuart e il Great Model di Sir Christopher Wren per la cattedrale di Saint Paul a Londra non era abbastanza ortodosso per il clero conservatore dell'epoca. Eppure le idee di Jones e Wren sembrano tradizionali se confrontate con alcuni edifici proposti nel secolo XVIII, in Francia in particolare.
Ètienne-Louis Boullèe, per esempio, disegnò il cenotafio di Newton, un gigantesco edificio a forma sferica, privo di finestre, che avrebbe dovuto custodire il sarcofago commemorativo dello scienziato; Charles Ribart propose invece, per il centro di Parigi, un incredibile edificio a forma di elefante. Idee visionarie, troppo eccentriche per avere qualche possibilità di uscire dal tavolo da disegno.
L'influenza duratura di questi architetti non la si può tuttavia misurare attraverso le imitazioni espliciti: edifici come il monumento a Newton sono evidenti prodotti del loro tempo e difficilmente possono stimolare delle copie. Se ancora oggi attirano l'attenzione è per la maestria e l'accuratezza dei disegni, e per la purezza delle loro forme, ma soprattutto perchè invitano architetti e progettisti a pensare in modo diverso, a mettere in discussione le regole e sperimentare strutture originali.
Con l'imporsi dell'industria, città europee e americane crescono a ritmi vertiginosi.
Fino al secolo XVIII, la maggiore parte della popolazione mondiale aveva abitato nelle campagne, dedita all'agricoltura, ma a partire dall'Ottocento tanti si riversarono nelle città per lavorare nelle fabbriche, causando un'esplosione demografica improvvisa. Le case, costruitite in tempi proibitivi, ben presto si rivelarono scadenti e condannavano i lavoratori a vivere in condizioni squallide. L'urgenza interessava anche le infrastrutture, come i trasporti e lo smaltimento dei riufiuti.
I progetti più ambiziosi degli architetti del secolo XIX furono tentativi di affrontare questi problemi. La Gran Bretagna, il primo paese industrializzato al mondo, fu protagonista di molte sfide: una banchina con rete fognaria integrata, una grande circolare che avrebbe dovuto fungere da strada, linea ferroviaria e centro commerciale, un cimitero multipiano a piramide: sono alcune tra le idee più estrose. Altre città affrontano aspetti differenti e l'eterogeneità dei progetti restituisce il sapore dell'epoca storia.
Alcuni, come la sorprendente Via Vittoriana di Joseph Paxton, sono moderni nel senso più audace del termine: l'architettura del ferro con struttura a vista era una novità a metà del secolo XIX. Il progetto di Robert Owen per un insediamento utopico a New Harmony nell'Indiana, richiama invece il millenario concetto di "città ideale". Sono le risposte a esigenze specifiche e tutte sono emblematiche. Molti di questi progetti vittoriani sono anche portatori di un valore aggiunto: hanno tracciato una via - migliorare i sevizi igienico-sanitari oppure conservare i beni culturali, solo per citare due esempi - e ancora oggi rappresentano un'ispirazione.
All'inizio del secolo XX, con lo slogan "Make it new!" il modernista Ezra Pound esorta i poeti al rinnovamento. Ma la volontà di svecchiamento non si limita alla poesia: nelle arti visivie si inanellano i più vari movimenti e l'Art Nouveau, il cubismo, il futurismo e il costruttivismo esplodono all'improvviso, straordinari e audaci, tra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX.
Gli architettetti diventano impazienti di abbandonare le dipendenze del revivalismo degli stili di epoche precedenti tipico dell'era vittoriana e di sperimentare qualcosa di radicalmente diverso. All'epoca, un modo per essere moderni era senza dubbio abbracciare la tecnologia.
La città futurista progettata dall'architetto italiano Antonio Sant'Elia è costruita attorno a nuovissime direttrici di trasporto: alle ferrovie e alle automobili è riservato più spazio che alle eprsone, in linea con la tipica ossessione futurista per le macchine e la velocità. Il Monumento alla Terza Internazionale di Vladimir Tatlin è moderno in altro modo: una struttura gigantesca in metallo in grado di muoversi. La struttura, ideata come simbolo di rivoluzione, finirà occultata nell'architettura cubista, con le sue bizzarre prospettive e le sue forme prismatiche sorprendentemente inedite.
Ma gli edifici più sorprendenti dell'era moderna, quelli che hanno costituito un modello per i proggettisti successivi, sono stati i grattacieli. L'hotel tondeggiante del catalano Antoni Gaudì, la torre interamente in vetro di Ludwig Mies van der Rohe, la pioneristica torre di Eliel Saarinen, antesignana del classico grattacielo americano a ziqqurat, tutti hanno saputo anticapare le tendenze progettuali degli anni successivi e trasformare lo skyline delle grandi città del mondo.
Negli anni Venti e Trenta gli architetti continuano a esplorare le potenzialità del design modernista.
Sono potenzialità che possono esprimersi in molti modi - funzionalismo, assenza di elementi ornamentali, struttura con il tetto piatto e le pareti bianche - ma più di ogni altra cosa gli architetti modernisti optano per materiali come acciaio e vetro per riprogettare non soltanto edifici ma intere città.
Sulla scia della terra di Berlino di Mies van der Rohe, l'uso del vetro diventa sempre più intensivo: gli edifici sono sempre più trasparenti e ci si vede attraverso. Non era mai successo. Il vetro non ha le qualità isolanti della muratura, ma la diffusione della rete elttrica consetiva agli architetti di prevedere impianti di riscaldamento e aria condiziata e di illuminare edifici e strade cittadine. Fu proprio il bagliore della luce elettrica a far sì che
Le curiose tubolari in vetro di Finsterlin non si potevano realizzare, ma molti edifici dell'epoca erano invece pratici e funzionali. Architetti come Walter Gropius, modernista, e Norman Bel Geddes, pionere dello "streamlining" (la ricerca delle forme affusolate), analizzarono le funzioni di un edigicio e cercarono di sviluppare le forme che potessero soddisfare le esigenze degli occupanti.
Il funzionalismo è infatti alla base sia del Teatro totale di Gropius sia del Ristorante aereo presentato da Bel Geddes all'esposizione di Chicago. Entrambi avrebbero potuto essere costruiti se gli architetti avessero trovato maggiore collaborazione. Altri progetti, anche se corretti dal punto di vista funzionale, si rivelarono inattuabili in termini di struttura e di costi. È il caso di due tra i più rivoluzionari, i "grattacieli orizzontali" di El Lissitzky per Mosca e gli edifici-ponti proposti da Hugh Ferriss per Manhattan, che non riuscirono ad andare oltre il tavolo da disegno. Furono ancora i costi a il grandioso progetto di Edwin Lutyens per una cattedrale cattolica a Liverpool.
Fa parte del lavoro dell'architetto elaborare progetti funzionali e fattibili in termini di costi, ma le audaci idee di Lissitsky, Ferriss e Lutyens, presentate sotto forma di plastici, progetti o suggestivi disegni, sono ancora oggi fonte di ispirazione per i progettisti e occasione di ammirazione e meraviglia per tutti noi.
Le città del pianeta vengono sottoposte a grandi sfide anche nella seconda metà del Novecento.
L'effetto più evidente è la nascita delle megastrutture, complessi sempre più enormi, dove ospitare gli abitanti delle città e i loro luoghi di lavoro, tempo libero e i servizi. Queste megastrutture, grandi da sole come città intere, progettavano di risolvere tutti i principali problemi urbani: avrebbero accolto le persone, ridotto tempi e costi di trasporto grazie alla contiguità di abitazioni e luoghi di lavoro, razionalizzanto le vie di traffico e protetto gli esseri umani da rumore e inquinamento. Una megastruttura è per così dire una città ideale, concentrata in un unico edificio. Questi progetti su ampia scala hanno sempre avuto due limiti: i costi e i volumi.
Vista la velocità dei cambiamenti dei tempi moderni, il rischio è sempre stato quello che diventassero obsoleti prima ancora di essere completati. Da qui il desiderio di costruire in modo diverso e soprattutto all'insegna dell'adattabilità. Il modello ad albero dei Cluster in the Air di Arata Isozaki, che consentiva l'aggiunta di moduli prefabbricati alle sue diramazioni, è un esempio di flessibilità. Furono gli architetti britannici del gruppo Archigram a presentare le proposte che forse possiamo considerare più estreme per realizzare una città adattabile, come la Plug-In-City e la Walking City. Progetti simili avevano bisogno di tutte le risorse tecnologiche del secolo XX per sembrare anche solo lontanamente plausibili.
Gli edefici arboricoli di Isozaki e le strutture mobili e insettiformi di Archigram suggerivano di attingere al mondo naturale epr realizzare nuove forme architettoniche, lontanissime dalle scatole bianche e rettangolari dei modernisti. Era un'esplosione di stili e approcci, dall'high-tech al postmodernismo, dalle forme angolari dell'Hyperbuilding di Rem Koolhaas e dell'Office for Metropolitan Architecture (OMA), pensato per la città di Bangkok, alle strutture curvilinee di Zaha Hadid per Hong Kong. Tutti gli edifici, sia grandi sia piccoli, consumano risorse e pertanto le pressioni ambientali impongono scelte architettoniche. La consapevolezza ecologica, per esempio, può essere presente ma invisibile (come gli isolamenti, che sono nascosti, o l'impiego di materie prime a chilometro zero), oppure chiaramente evidente (per esempio, una piccola casa off-grid dotata di tutto, dagli infissi in triplo vetro alle toilette compostanti).
L'ecoarchitettura e le grandi strutture possono trovare un punto di incontro?
Gli architetti esplorano sempre di più questa possibilità ed edifici come gli Asians Cairns di Vincent Callebaut, che combinano fattorie e grattacieli, ne sono un audace esempio.
I progetti più avveniristici di oggi fanno esattamente quello che facevano gli architetti del Rinascimento cinquecento anni fa: mettere in discussione il modo comune di pensare, proporre ideali, cercare di rendere reale il futuro.